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Emozioni in musica: Up is Down
di Francesca Busetti

La mia vita è permeata da una colonna sonora. Probabilmente è qualcosa che capita a tutti, l’avere quasi perennemente in testa una qualche musica che fa da sfondo alla propria giornata. Di questa sensazione ho ricordi molto antichi. Già da bambina, infatti, mi capitava di “udire” la stessa musica per giorni e di non riuscire a “cambiare registro”. A volte trovavo la cosa insopportabile. Ora invece mi piace. Una mattina mi alzo e, dopo un po’, parte 21 Guns dei Green Day. Poi c’è stato il periodo del Valzer dei fiori di Tchaikovsky. L’altro giorno era De Andrè, con Il pescatore, La guerra di Piero, La canzone di Marinella. Perché? Magari potrei cercare qualche studio su musica e Neuroscienze al proposito… ma questa è un’altra storia. 😉

Quello di cui oggi vorrei parlare è l’emozione che ha suscitato in me l’ascolto di una certa musica… non pensate a chissà cosa, è una colonna sonora di una film che non ho nemmeno mai visto e che magari non vi piace. Ma la musica, secondo me, è di grandissimo effetto. È “Up is down”, tratta da “I Pirati dei Caraibi: ai confini del mondo”, di Hans Zimmer.

L’emozione non nasce tanto dall’ascolto della musica in sé, bensì dal suo ascolto dal vivo…

Facciamo un passo indietro. Siete mai stati a un concerto? Non un concerto di musica leggera, un concerto classico. Da piccola non li sopportavo. Studiando pianoforte, ho dovuto assistere a decine di saggi di musica e a qualche sporadico concerto, “così imparate come si fa”, ci dicevano le nostre insegnanti. Io sapevo solo che dopo un po’ non ne potevo più. Se il concerto era di sera, poi, che avevo sonno. E non riuscivo a tenere gli occhi aperti (beh, questo mi capita anche adesso…). Giravo e rigiravo il foglietto del programma vedendo faticosamente procedere la successione dei vari brani, passavo ripetutamente in rassegna il contenuto delle mie tasche e cercavo, ogni tanto, di osservare quelle mani che planavano con tanta grazia sulla tastiera del pianoforte e che io non sarei mai riuscita ad emulare. E alla fine, quando tutti si sperticavano ad applaudire implorando il bis, io guardavo mio papà supplicandolo: “Nooooo, non voglio il bis!!!”. Non che non mi piacesse la musica, anzi, amavo suonare. Tuttavia ho sempre pensato che un conto è suonare, un altro è ascoltare chi suona. Il pianista si emoziona suonando, chi ascolta… dipende. E ascoltare un concerto di pianoforte per me è sempre stato (fino a una certa età) alquanto noioso.

Ma veniamo a quella serata. La serata di Up is Down. Si trattava di una rassegna di cori di vari collegi universitari, a conclusione della quale si sarebbe esibita una orchestra agli esordi: la Nova Symphonia Patavina, orchestra di giovani musicisti diretta da un altrettanto giovane Maestro. Persone che hanno fatto della musica la propria professione, affiancate ad altre per le quali essa è una passione collaterale, ma che studiano o lavorano in tutt’altro ambito.

L’atmosfera che si respira appena prima di un concerto d’orchestra è una fine tensione associata a quel suono multiforme degli strumenti che si accordano, alla voce un po’ strozzata dell’oboe, al respiro che esce dalla cassa dei violini. Ma alla fine tutte le voci si placano, tutti gli occhi si volgono al Maestro, il silenzio è sospeso sulla punta di quella bacchetta. La platea è anch’essa attenta e immobile, sembra trattenere il respiro, e io mi sporgo dal mio osservatorio privilegiato, su uno dei lati dell’orchestra. Di fianco a me, sulla destra, ci sono i violoncelli e i contrabbassi e proprio di fronte la schiera di violini.

Un tocco della bacchetta…

Il suono parte proprio dalla parte opposta alla mia, dove ci sono gli ottoni e i clarinetti, un piccolo crescendo carico di tensione che cede subito la parola agli archi. Ritmano il tempo caricandolo di aspettativa mentre, sotto, i violoncelli muovono brevi e rapide onde in su e in giù. Il corno vibra e conclude. Di nuovo la stessa musica sospesa, ma parte anche il triangolo adesso, un tintinnio ritmato che suona di velata minaccia col suo lieve timbro metallico.

Ed eccolo, finalmente, il violino, col suo suono guizzante e rapido che volteggia sicuro sopra la base intessuta dal resto degli archi. Cede la parola al flauto traverso, che ripete la stessa melodia su un tappeto rullante di percussioni che mi fanno immaginare un gran trapestio di piedi. Partono i corni, solenni, con un timbro quasi da battaglia medievale, che trascinano la tensione ancora più su, sembrano ingrossare le fila di tutti questi suoni che sgorgano come un fluido dagli strumenti. Poi tutto si ferma. È solo un attimo. I tromboni raccolgono le fila e danno di nuovo il via alla medesima melodia ritmata, ma stavolta ci sono tutti, violini, viole, violoncelli, contrabbassi, oboi e clarinetti, e le percussioni, che ora ci danno dentro sul serio e trascinano l’orchestra in questa sorta di galoppo. Ma era solo la premessa: una breve scaletta discendente da parte dei fiati, e attacca il pezzo forte. Tutto il resto non era servito che a preparare questo, il momento solenne. E infatti lo espongono coloro che hanno la voce più grossa, gli ottoni, gli oboi, i fiati più corposi. Gli altri strumenti ci sono, continuano a sostenerli con il loro ritmo incalzante e ogni tanto qualche strumento più esile fa capolino con una cascata di suoni, per poi tornare nell’ombra. La musica ci trascina, il volume aumenta, pensiamo di essere arrivati al momento fondamentale del pezzo. E invece no.

Si passano rapidamente la palla flauto, clarinetto e fagotto, che riprendono un assaggio dell’incipit, giusto per farcelo ricordare, e lo lasciano concludere a corni e archi, tutti insieme. Ed ecco che ripartono i corni, e io li guardo rapita, mentre solenni riprendono una scaletta ascendente, che un gradino alla volta va sempre più su, chiama tutti a raccolta ed aumenta la tensione. Sotto, gli archi battono sempre sulla stessa nota, veloci. Io provo un’emozione quasi fisica, tangibile, qualcosa che cresce dentro e mi trascina. Saranno tutti quei suoni a due passi da me, quei colori, quelle forme, e quel respiro che la musica produce uscendo dagli strumenti e che non percepiamo se non dal vivo. Intanto gli ottoni continuano nella loro scalata, e ogni passo che compiono è rafforzato dai tromboni che fanno loro eco.

Uno strappo dei corni conclude la frase, poi i violini riprendono ad insistere sulle stesse due note, su e giù in questo vortice che cresce ed è ormai inarrestabile. Sotto, gli ottoni gettano con potenza brandelli del tema, rafforzati dai colpi decisi delle percussioni. Ripartono i corni, e stavolta ci siamo sul serio. Dispiegano la melodia che ormai conosciamo, i violini fanno un piccola chiosa fornendo loro l’ultimo scalino al quale nuovamente questi si agganciano, e si vola verso la conclusione. Ognuno con la propria voce, tutti gli strumenti, archi, ance e ottoni appesi a quelle tre note lunghe, definitive, che si ripetono, e sembra quasi un coro di voci umane. Si appoggiano pesantemente le percussioni, tutta l’orchestra è lì, in quelle ultime battute cadenzate, che a fatica si trattengono e rallentano, e si allargano distendendosi finalmente nella nota conclusiva. Il suono sfuma e svanisce con un ultimo tuffo delle percussioni. Resta solo l’eco. E l’emozione che rimane sospesa.

Solo gli applausi coprono tutto. Credo proprio che, stavolta, il bis lo chiederò anch’io. 🙂

 

Fonte: http://francescabusetti.wordpress.com